venerdì 27 luglio 2012

ALI' BABA' E I QUARANTA LADRONI

In una città della Persia vivevano due fratelli: Cassin e Alì Babà. Non erano affatto ricchi, perché il loro vecchio padre, morendo, aveva lasciato soltanto un piccolissimo podere, che essi avevano diviso a metà. Ma le cose erano andate diversamente per i due fratelli: Cassin aveva sposato una donna ricca, che gli aveva portato in dote un magazzino pieno di mercanzia, e nel giro di pochi mesi era diventato il più ricco mercante della città.
Alì Babà aveva sposato una donna povera come lui, e per mantenere i suoi figli non aveva altro mezzo che tagliare la legna nella foresta che sorgeva al limite della città.
E fu proprio nella foresta che cominciò la grande avventura di Alì Babà, il povero boscaiolo. Un giorno, mentre stava caricando i tre asinelli che rappresentavano tutta la sua ricchezza, vide avvicinarsi una grande nuvola di polvere e, in mezzo alla polvere, un numero imponente di cavalieri.

Per quanto non si sapesse della presenza di ladroni in quella parte del paese, pure Alì Babà ebbe subito il sospetto che proprio di ladroni si dovesse trattare.
Senza preoccuparsi dei suoi asinelli, nascosti alla meglio tra i cespugli e i tronchi, il povero boscaiolo si arrampicò sopra albero e si nascose in modo tale de vedere tutto senza essere veduto. L'albero cresceva proprio vicino ad una grande roccia che sembrava un isolotto in mezzo alla foresta; le sue pareti erano così ripide e prive di appigli che nessuno uomo avrebbe potuto scalarle. Il cavalieri, che erano tutti alti, robusti e ben equipaggiati, appena arrivarono ai piedi della roccia smontarono da cavallo. Alì Babà, dall'alto del suo albero, ne contò quaranta e dal loro aspetto ebbe la certezza che essi erano veramente dei predoni e senz'altro fra i più feroci.

Egli non si sbagliava. Erano infatti quaranta ladroni, tutti della stessa banda, che avevano il loro punto di ritrovo nella foresta.
Ogni cavaliere tolse dalla groppa del proprio cavallo un sacco pieno di orzo e lo attaccò al collo della bestia dopo averla liberata dalla sella e dalle briglie. Poi ognuno di loro prese altri sacchi e altri involti che aveva con sé e Alì Babà pensò subito che contenessero gli oggetti rubati. Il più alto dei ladroni si mise davanti seguito dagli altri trentanove; percorsero pochi passi tra i cespugli e gli arbusti e si fermarono dinanzi alla parete di roccia dove il capo pronunciò a voce alta e chiara:

- Sesamo apriti!
Subito una porta si aprì nella parete: i ladroni entrarono uno dietro l'altro, seguiti dal capo che entrò per ultimo e la porta si richiuse alle sue spalle. Alì Babà fu preso da un grande stupore di fronte a questa magia misteriosa. "Sesamo, apriti...Che strane parole! Devo ricordarle anch'io" pensò tra sé. "Ma che cosa ci sarà mai in quella roccia? Deve essere molto grande se hanno potuto entrarci ben quaranta uomini!". Alì Babà teneva gli occhi fissi all'apertura della roccia e, un po' per la paura di essere scoperto, un po' per la curiosità di vedere che cosa stava succedendo, non osò muoversi.
Passò molto tempo; alla fine la porta si aprì e ne uscirono i quaranta ladroni preceduti dal capo che disse a voce alta:
- Sesamo, chiuditi!
E la porta si richiuse pesantemente alle loro spalle. Allora i ladroni rimontarono a cavallo e si allontanarono in una nuvola di polvere. Alì Babà non scese subito dall'albero. Pensava tra sé: "Se avessero dimenticato qualche cosa e tornassero indietro, mi troverei in un bel guaio!".
Il boscaiolo attese prudentemente ancora un po' di tempo. Qualche ora dopo, si calò dall'albero: passò attraverso i cespugli e, giunto davanti alla parete della roccia, provò a ripetere a voce alta e chiara le parole magiche:
- Sesamo, apriti!
La roccia si aprì, ma, al contrario di quello che Alì Babà aveva temuto, non nascondeva una caverna oscura e tenebrosa. L'interno era vasto e splendidamente illuminato, poiché un'apertura dall'alto faceva liberamente entrare aria e luce. Intorno erano accatastate
stoffe di seta e di broccato, tappeti di grande valore e, soprattutto, oro e argento. La grotta doveva essere asilo dei ladroni certamente da molti e molti anni e quivi nascondevano il loro bottino.
Alì Babà fece presto a decidersi; entrò nella grotta, e subito la porta si chiuse alle sue spalle. Ma questo non lo preoccupò, perché sapeva di poterla riaprire a suo piacimento. Si avvicinò a un sacco d'oro e si empì le tasche di monete; per ben dieci volte andò avanti e indietro, dall'interno della grotta alla foresta, per caricare d'oro i suoi tre asinelli. Ogni volta comandava:

- Sesamo, apriti! - e poi:
- Sesamo, chiuditi!
Alla fine, coperto l'oro con pezzi di legno e legato il prezioso carico, se ne tornò in città. Entrato che fu nella sua povera casa, Alì Babà ne chiuse bene la porta, poi rovesciò tutto l'oro davanti alla moglie, che non poteva credere ai suoi occhi:
- Alì Babà! - strillò la buona donna - Saresti così disgraziato da metterti a rubare o a giocarti tutto sulle scommesse sportive?
- No moglie mia, - rispose il boscaiolo - io non sono un ladro, a meno che sia rubare il togliere ai ladri. Ma ascolta la mia storia.
Alla fine del racconto la moglie di Alì Babà era pienamente convinta.
- Voglio contare queste monete per sapere quante sono. - disse.
- Niente affatto, i siti scommesse sportive non mi interessano,  ma non abbiamo tempo da perdere. Io scaverò una fossa e nasconderò tutto questo oro, che mi fa veramente paura.
- Ma è bene sapere quanto possediamo! Prendiamo una misura di grano e misuriamolo senza starlo a contare moneta per moneta.
- E sia, - sospirò Alì Babà - ma certamente saprai che noi non abbiamo misure in quanto non abbiamo mai avuto grano da misurare.
- Lo so benissimo; ma andrò a chiederne una in prestito a mia cognata, che non potrà rifiutare.
Infatti la moglie di Cassim non rifiutò affatto: ma fu presa da una grande curiosità. Che cosa aveva da misurare sua cognata, la moglie di quel miserabile di Alì Babà, che non aveva mai posseduto un pugno di grano? E, per soddisfare questa curiosità, spalmò di grasso il fondo della misura prima di consegnarla, con grandi raccomandazioni, alla cognata.
L'oro riempì molte misure, e Alì Babà e la moglie erano raggianti. Con molta premura la donna riportò la misura alla cognata, la ringraziò, e se ne tornò a casa aspettando pazientemente che il mistero si chiarisse.
- Cassim! - gridò la moglie - Vieni a vedere che cosa ha misurato quel disgraziato di tuo fratello!
E mostrò al marito meravigliato una moneta d'oro che era rimasta attaccata al fondo grazie allo strato di grasso che vi era stato spalmato prima. Cassim non si sentì affatto felice per la fortuna toccata al fratello; anzi, sentì subito nel cuore una gelosia fortissima che non lo fece dormire per tutta la notte. Appena si fece giorno, si recò alla casa di Alì Babà.
- Alì Babà, tu sei un mentitore e un falso fratello. Vivi come un miserabile e hai tanto oro da misurarlo come fosse grano!
- Fratello mio, io non so veramente di che cosa vuoi parlare!
- Non fare il furbo: - riprese Cassim tirando fuori la moneta d'oro; - questa è rimasta attaccata sul fondo della misura che mia moglie ha prestato alla tua.
Alì Babà comprese che era inutile continuare a mentire e, con la massima sincerità, raccontò tutto al fratello; anzi, si offrì di accompagnarlo; ma Cassim rifiutò sgarbatamente, rispondendo che preferiva andare da solo. Infatti, allo spuntare del giorno, Cassim uscì dalla città portando con se dieci muli robusti, carichi di grandi casse che il mercante si proponeva di riempire in quel primo viaggio.
Arrivò alla foresta, si diresse verso i cespugli che il fratello gli aveva descritto, trovò la parete di roccia e gridò:
- Sesamo, apriti!
La porta si aprì, e Cassim si trovò nell'interno della caverna, mentre la porta si richiudeva senza rumore alle sue spalle. Da buon mercante, si mise a esaminare le stoffe, i tappeti e tutti gli oggetti preziosi che stavano ammucchiati vicino alle pareti; quindi immerse le mani nell'oro e nell'argento, pieno di gioia e d'entusiasmo. Poi si ricordò delle casse portate dai muli e volle uscire per cominciare il carico:
- Apriti!
Ebbe un bel gridare, piangere, minacciare, invocare: la porta restava chiusa. La frase magica era completamente sfuggita dalla sua mente, e più tentava di ricordarla, più la sua memoria s'imbrogliava. Alla fine, senza uno sguardo per le ricchezze che lo circondavano, Cassim si gettò a terra piangendo.
Verso mezzogiorno, i ladroni tornarono alla loro grotta. Videro i dieci muli carichi di casse che, spaventati dall'arrivo dei cavalieri, si diedero alla fuga per la foresta. Il capo sfoderò la spada e si diresse verso la parete di roccia:
- Sesamo, apriti!
La porta si aprì e Cassim si precipitò fuori; ma non poté fare un passo di più, perché le spade dei ladroni caddero su di lui e lo stesero a terra morto.
Entrati nella grotta, i ladroni tennero consiglio; non capivano come quello sconosciuto fosse potuto entrare nel loro nascondiglio: nessuno, all'infuori di loro, conosceva e sapeva le parole magiche necessarie per far aprire e chiudere la porta. Decisero alla fine di lasciare il corpo dello sconosciuto nell'interno della grotta e di rimanere poi per qualche tempo lontani da quel luogo, per evitare spiacevoli sorprese. Così fecero, e ben presto nella foresta ritornò il silenzio.
Nel frattempo la moglie di Cassim era di grandi pene non vedendo ritornare il marito. Alla fine si decise e andò da Alì Babà.
- Tu sai che tuo fratello è andato nella foresta e non è ancora tornato. Io sono in grande pena e temo che gli sia accaduto qualche cosa di terribile. Spero anche che non si sia fermato a giocare a giochi casino come le slot machines come il suo solito. Ci ha perso un sacco di soldi.
Alì Babà era ancora offeso perché il fratello non lo aveva voluto con sé; ma quando fu passato anche tutto il giorno dopo e di Cassim non si ebbe alcuna notizia, allora il boscaiolo decise di andare a vedere che cosa fosse accaduto.
Prese, come al solito, i suoi tre asinelli e si diresse verso la foresta; arrivato davanti alla roccia, si stupì di non vedere traccia dei dieci muli che Cassim aveva portato con sé. Disse le parole magiche e la porta si aprì.
La prima cosa che il poveretto vide fu proprio il corpo di suo fratello, straziato da mille ferite. Non ci volle molto tempo perché Alì Babà comprendesse quello che doveva essere successo nella grotta. Sollevò il corpo del fratello, lo avvolse in un prezioso tappeto e lo caricò su uno degli asinelli, allontanandosi più presto che poté.
Arrivato in città, andò a bussare alla casa della cognata. La porta gli fu aperta da una bella e giovane schiava, Morgiana, che aveva fama di essere molto astuta e coraggiosa.
- Senti, Morgiana - disse Alì Babà - la prima cosa che ti raccomando e il segreto più assoluto. Qui c'è il corpo di mio fratello Cassim; è importante farlo seppellire come se fosse morto di morte naturale. Nessuno dovrà mai sapere la verità, o tutte le nostre vite saranno in pericolo.
Lasciando la cognata a piangere sulla triste sorte del marito, Alì Babà, aiutato da Morgiana, trasportò il corpo di Cassim nella sua stanza, adagiandolo sul letto. Subito dopo, Morgiana uscì per andare a comprare delle medicine dallo speziale più vicino.
- Ahimè! - si lamentava la bella schiava - Temo che il mio povero padrone non avrà neanche il tempo di prenderle tutte!
Così fece anche il giorno dopo, lamentando che la malattia progrediva di ora in ora. Intanto Alì Babà e la moglie traversavano più volta al giorno la strada per andare a domandare notizie della salute di Cassim, in modo che tutti i vicini vedessero e sentissero ogni cosa. Alla fine, i lamenti della moglie annunciarono a tutto il vicinato che Cassim era morto. Appena fu giorno, Morgiana uscì di casa e si diresse verso la bottega di un vecchissimo sarto, chiamato Babà Mustafà.
- Babà Mustafà, vuoi guadagnare una moneta d'oro? - gli domandò la schiava
- Buona idea, figlia mia - rispose il vecchio - di che si tratta? Io sono pronto a tutto.
- Si tratta di fare per me un onesto lavoro; ma, per arrivare sul posto, devi lasciarti bendare gli occhi.
Babà Mustafà si lasciò bendare e condurre da Morgiana. Arrivarono fino alla porta secondaria della casa di Cassim; qui la schiava tolse la benda dagli occhi del vecchio e lo condusse nella stanza del morto.
- Babà Mustafà - disse Morgiana - ti ho portato fin qui perché tu possa fargli il vestito funebre. Non perdere tempo e mettiti al lavoro senza far domande; quando avrai terminato, io ti darò un'altra moneta d'oro.
Quando Babà Mustafà ebbe finito, Morgiana gli bendò nuovamente gli occhi e lo ricondusse nella sua bottega, dove lo lasciò dandogli la moneta d'oro promessa e raccomandandogli il segreto.
Così il corpo di Cassim fu rivestito a nuovo secondo l'usanza, e il funerale poté svolgersi normalmente, con grande concorso di folla. Pochi giorni dopo, Alì Babà si trasferì con la famiglia nella casa della cognata, così come erano d'accordo. Tutto sembrava tornato tranquillo; ma ecco che un giorno i quaranta ladroni tornarono nella loro caverna e subito si accorsero che il corpo dello sconosciuto era scomparso.
- Siamo perduti: - disse il capo - il nostro segreto era noto non soltanto colui che è morto, ma anche a quello che è venuto a prendere il corpo. Bene, dovremmo trovare anche lui e ucciderlo.
Discussero a lungo e, alla fine, uno dei ladroni si offrì di andare in città a scoprire qualche cosa. Si travestì da mercante e partì durante la notte. Arrivò sulla piazza della città alle prime luci dell'alba e vide che l'unica bottega aperta era quella di un vecchio sarto.
- Buon uomo, cominci a lavorare assai presto - disse il ladrone avvicinandosi.
- Chiunque tu sia, - rispose Babà Mustafà (poiché era proprio lui) - mi conosci assai poco! I miei occhi sono talmente buoni che io ho cucito un vestito a un morto, in una camera buia, soltanto pochi giorni fa.
Qualche cosa fece capire al ladrone di essere sulla buona pista. In breve, Babà Mustafà raccontò tutto quello che sapeva; ma, se il ladrone volle conoscere la casa dove il vestito era stato cucito, dovette bendare gli occhi al vecchio e lasciarlo camminare come aveva camminato quel giorno con la bella Morgiana. Infatti, quando Babà Mustafà disse: - Deve essere qui; non ho camminato più di così.
Il ladrone si trovava esattamente davanti alla porta secondaria della casa di Cassim. Ringraziato e ricompensato il vecchio, il ladrone fece un segno con un pezzo di gesso sulla porta per riconoscerla dopo, e partì per andare a chiamare i suoi compagni. Poco dopo uscì di casa la bella Morgiana e i suoi occhi acuti videro il segno bianco sulla porta.
- Che cosa significa questo segno? Qualcuno vuol far del male al mio padrone? Qualunque cosa sia io prenderò ogni precauzione.
E Morgiana, preso un pezzo di gesso, segnò nello stesso modo tutte le porte intorno. Così quando i ladroni arrivarono, armati fino ai denti, il primo compagno non fu capace di riconoscere la porta che lui stesso aveva segnata.
Se ne tornarono nella foresta e il capo, furente e deluso, uccise il ladrone. Poi chiamò e raccolta i suoi uomini e dopo averli passati in rassegna scelse quello che gli sembrava più avveduto e lo mandò in città. Anche per costui la faccenda si svolse nello stesso modo. Babà Mustafà si lasciò convincere a fargli da guida, il ladrone segnò la porta con la creta rossa, e Morgiana, subito dopo, segnò tutte le porte intorno nello stesso modo. Così anche il secondo ladrone ci rimise la vita, e il capo si decise ad agire direttamente. Quando Babà Mustafà lo ebbe condotto davanti alla porta, il ladrone la guardò così bene che non ebbe bisogno di segnarla per poterla riconoscere dopo. Tornato che fu nella caverna, disse ai suoi compagni:
- E' ora di prendere una vendetta completa dell'uomo che conosce il nostro segreto e che rappresenta per noi un continuo pericolo. Io so adesso che egli è e dove abita. Sentite il mio progetto.
Quando ebbe esposto il suo piano, inviò i ladroni in città a comprare diciannove muli

carichi di trentotto orci di pelle, due per ogni animale. Ma uno solo degli orci era pieno d'olio: negli altri trentasette si nascosero i ladroni bene armati. Le bocche degli orci furono chiuse, lasciando soltanto uno spiraglio attraverso il quale l'uomo nascosto potesse respirare.
Ci vollero tre giorni per terminare tutti i preparativi; poi il capo, vestito da mercante e seguito dai muletti col loro carico misterioso, si diresse verso la città e andò a bussare alla porta di Alì Babà. Il capo dei ladroni era così mutato col suo travestimento da mercante, che Alì Babà non seppe riconoscerlo.
- Entra, - disse gentilmente - Fa entrare i muli nel mio cortile e sii mio ospite.
Con l'aiuto dei servi, il capo dei ladroni scaricò i muletti e dispose gli orci nel cortile. Poi seguì Alì Babà nella sala dove era imbandita la cena. A notte fonda il capo chiese ad Alì Babà il permesso di andare a vedere se i suoi muletti non mancassero di nulla. Avvicinatosi agli orci, disse sottovoce:
- Appena sentite cadere dei sassolini, tagliate la pelle dell'orcio e venite fuori. Io sarò subito con voi.
Il banchetto era al colmo quando Morgiana si accorse che l'olio era finito e purtroppo le lampade avevano tutte necessità di essere riempite.
- Non ti preoccupare - consigliò uno degli schiavi - va' a prendere un po' dell'olio del mercante.
Morgiana si avviò verso il cortile pieno di oscurità e di ombre. Appena si fu avvicinata al primo orcio, sentì una voce che diceva piano:
- E' l'ora?
Morgiana, che era coraggiosa, non si spaventò. Anzi si avvicinò a tutti gli orci e alla medesima domanda che tutti le rivolgevano, rispose: - Non ancora, tra poco. E poiché Alì Babà le aveva raccontato tutta la storia, disse tra sé con sicurezza: "Questi sono i ladroni della foresta". Trovato l'orcio pieno d'olio, Morgiana accese la sua lampada; poi tornò nella cucina e, senza por tempo in mezzo, prese una grande pentola, la riempì col rimanente olio dell'orcio e la mise sul fuoco. Quando l'olio cominciò a bollire, la schiava scese nel cortile e versò olio bollente in ogni orcio, dal primo fino all'ultimo e li sigillò bene, uccidendo così tutti i ladroni nascosti nell'interno. Terminato questo lavoro, Morgiana andò a vestirsi per la danza.
Era bravissima, e poche ballerine della corte del sultano potevano gareggiare con lei. Nascosto nella veste, tenne a portata di mano un pugnale acuminato. Quando Morgiana cominciò a danzare nella stanza dove Alì Babà intratteneva il suo ospite, la conversazione terminò sull'istante. Lo stesso ladrone, ammirato, stava quasi per dimenticare il suo progetto, quando Morgiana, chinandosi su di lui in un movimento della danza, gli infilò il pugnale nel cuore.
- Disgraziata! - gridò Alì Babà - Che cosa hai fatto?
- Ti ho salvato, ho salvato te e tutta la tua famiglia.
E, condotto Alì Babà nel cortile, Morgiana fece aprire i trentasette orci di olio, che rivelarono il loro contenuto.
- Morgiana, - disse Alì Babà commosso - io ti restituisco la libertà e, per dimostrarti la mia riconoscenza, ti prego di voler accettare come marito mio figlio.
Trascorsi pochi giorni, dopo aver sotterrato i corpi dei ladroni, Alì Babà festeggiò le nozze del figlio con Morgiana. Passato un anno, Alì Babà andò con il figlio nella foresta e, fatta aprire la grotta con l'aiuto della parole magiche, portò fuori tutto il tesoro.
Finché visse, fu molto generoso con tutti, ma non rivelò mai a nessuno il segreto della grotta. E questa è la vera storia di Alì Babà, della schiava Morgana e dei quaranta ladroni della foresta. 

ALADINO E LA LAMPADA MAGICA

In una lontana città dell'Arabia vivevano Aladino e sua madre, vedova e inferma. Il giovane Aladino era obbligato ad ogni genere di mestiere per aiutarla a sopravvivere. Un giorno, uscendo di casa, il giovane venne interrogato da un uomo anziano che gli disse:
- Sei tu il figlio di Chin Fu, il sarto?

- Si - confermò Aladino.
- Ah! Per fortuna ti ho trovato! Sono il fratello di tuo padre. Prendi questa borsa d'oro e portala a tua madre. Abbiamo avuto dei buoni guadagni negli affari. Questa sera verrò a cena da voi e vi spiegherò tutto.
L'allegria della vedova fu maggiore nel ricevere il denaro che nel sapere dell'esistenza del cognato, cosa che ignorava. Così, quella sera...
- Tu e tuo figlio dovete considerarmi come uno della famiglia.
Così disse l'uomo anziano e, grazie al suo denaro, si conquistò la fiducia della vedova. Qualche giorno dopo, lo zio domandò ad Aladino che lo accompagnasse appena fuori città.
- Voglio mostrarti qualche cosa che nessuno ha mai visto - disse lo zio - raccogli qualche ramo per accendere il fuoco.
Aladino fece come gli era stato chiesto. Quando il fuoco si spense lo zio tracciò una riga nelle ceneri e come per magia una botola apparve.
- Qui sotto c'è un tesoro immenso che ci permetterà di essere i più potenti del mondo. Devi solo obbedirmi ciecamente. Ora pronuncia il tuo nome, quello di tuo padre e di tuo nonno e vedrai...
- Sono Aladino, figlio di Chin Fu e nipote di Alì.
La botola si aprì facilmente rivelando una scala lunghissima che si perdeva nell'oscurità.
- Fai attenzione, Aladino. Scenderai dodici scalini, arriverai ad una sala dalla quale si dipartono tre stanze. Nella prima ci sono monete d'oro, non le toccare. Nella seconda vedrai alberi carichi di frutti, che dovrai lasciare dove sono. Ti dirigerai nella terza stanza dove troverai una lampada di rame. Raccoglila e al tuo ritorno potrai prendere ciò che vorrai.
Aladino scese nel sotterraneo e obbedì fedelmente. Compiuta la missione si avvicinai tesori immensi contenuti in quelle stanze e pensò di portare un regalo a sua madre. Raccolse un po' di pietre preziose e monete d'oro poi raggiunse la botola.
- Aiutami ad uscire, zio - pregò il ragazzo. - Non riesco con tutto questo peso...
- Prima dammi la lampada! Ti sentirai più leggero!
- Fammi uscire...
- O mi passi la lampada o ti lascio chiuso qui dentro.
Aladino arretrò costernato. Il tono minaccioso dell'uomo non lasciava presagire nulla di buono. In realtà, quello che si spacciava per il fratello di Chin Fu, altri non era che un mago africano che aveva decifrato una pergamena con il segreto della caverna nella quale erano custoditi tutti quei tesori e una lampada magica. Poiché il giovane non voleva consegnare la lampada, il falso zio, incollerito, lo buttò giù per la scala e chiuse fragorosamente la botola.
Così il povero ragazzo rimase prigioniero per tre giorni e tre notti, senza bere, mangiare e tantomeno uscire. Quando era la colmo della disperazione, rassegnato ormai a morire, strofinò casualmente la lampada. Improvvisamente il sotterraneo si illuminò di una luce vivissima. Di fronte allo stupefatto Aladino, apparve un enorme genio che disse:
- Sono il genio della lampada, cosa ordini padrone?
Appena ripresosi dallo stupore il giovane parlò:
- Voglio uscire di qui e voglio mangiare e bere fino a scoppiare.
Non aveva concluso la frase che si trovò seduto in un campo all'aperto, contornato da vivande degne dell'imperatore. Dopo aver mangiato e placato la sete, Aladino si apprestò a rincasare.


Lungo il cammino decise di non raccontare nulla a sua madre per non inquietarla. Durante qualche mese vissero nell'agiatezza poi, finiti i denari, si ritrovarono ancora in miseria. Aladino si risolse allora a utilizzare di nuovo la lampada magica. Il genio apparve e disse:
- Cosa comandi, padrone?

- Vogliamo da mangiare.
E subito fu apparecchiata una ricca tavola. Il giovane spiegò tutto alla madre, meravigliatissima e lei lo consigliò:
- Non so cosa significhi tutto ciò ma deduco che si tratta di uno spirito infernale. Sarebbe meglio gettare via la lampada.
- No, madre. Ci farà ricchi e potenti.
Il giorno seguente Aladino confidò a sua madre un grande desiderio.
- Vorrei sposarmi con la Principessa Amina. Ti chiedo di andare a palazzo dal Sultano e chiedere la mano di sua figlia per me.
- Sei pazzo? Il Sultano mi farà decapitare!
- Non accadrà. Porteremo pietre preziose in quantità. Le prenderò dalla caverna che ti dissi.
E così fecero. Il Sultano apprezzo molto i doni e si consigliò con il Gran Visir.
- Cosa debbo fare? Le pietre sono bellissime ma non sono convinto di lasciare in sposa la mia unica figlia ad uno sconosciuto...
- Prendi tempo, o mio Sultano. Devi dire che accetti la possibilità del matrimonio ma che vuoi sei mesi di tempo per decidere definitivamente.
Il Sultano così disse alla madre di Aladino che riferì tutto al suo figliolo. Poche settimane dopo una notizia si sparse in città: il figlio del Gran Visir voleva sposare la Principessa Amina. Subito Aladino sfregò la lampada e ordinò al genio:
- Vai da questo pretendente e portalo così lontano da qui che non possa tornare prima di parecchi giorni. Poi fammi incontrare con Amina.
Il genio obbedì e quando la Principessa si trovò di fronte il ragazzo, costui le disse:
- Tuo padre non ha mantenuto la parola data, i nostri accordi erano ben diversi. Per questo sono qui.
Bisogna dire, a onor del vero, che la Principessa si innamorò subito di Aladino e non voleva saperne di sposare il figlio del Gran Visir. Il giorno seguente, con l'aiuto del genio, ottennero due magnifici cavalli e uno stuolo di servitori e gettando monete d'oro per le strade, si diressero tutti a palazzo.
Il popolo acclamava quel generoso benefattore e il Sultano, scoperto che il Gran Visir complottava per far unire in matrimonio suo figlio alla Principessa, decise senz'altro di concedere ad Aladino la mano di sua figlia. Le nozze furono celebrate subito e con grande sfarzo. I due sposi, felici, partirono per un lungo viaggio di nozze.
Durante la loro assenza il falso zio di Aladino cercò di rubare la lampada ma le guardie del palazzo, che la custodivano gelosamente, lo scoprirono e il malvagio mago fu decapitato sulla pubblica piazza.
Aladino rimase l'unico a conoscenza del meraviglioso segreto della lampada e la utilizzò solo per dare prosperità e felicità ai suoi sudditi, oppure per difendere il suo regno da tentativi di invasione. Così il timore della madre, che pensava al genio della lampada come ad un essere infernale, risultò infondato.
Con il passare degli anni la storia divenne legenda e nessuno seppe più nulla della lampada magica. Molti continuarono a cercarla... Dicono che Aladino la gettò in fondo al mare... Chi lo potrà sapere? 

FRATELLI GEMELLI

Una donna aveva due figli gemelli, ai quali aveva messo nome Lemba e Mavungu. Il giorno della loro nascita, uno stregone aveva consegnato alla mamma due pietre tonde e lisce.
- Questi saranno i talismani dei tuoi figli: - le aveva detto - appendili al loro collo e , quando saranno grandi, di loro che non se li tolgano mai.

Cosi la donna aveva fatto, e i ragazzi erano cresciuti ed erano diventati due bellissimi giovani. Un giorno, Mavungun, stanco della solita vita, decise di partire.
- Io non ho niente in contrario; - disse la madre - ma siamo talmente poveri, che non posso darti niente da portare con te.

- Questo non importa:- rispose il giovane - è ormai il momento di mettere alla prova la potenza del mio talismano.
Salutò la madre e il fratello e si diresse verso la foresta. Qui giunto, colse alcuni fili d'erba, li tocco con il talismano e...

- Che tu sia un cavallo! - disse, buttando per terra il filo più lungo.
- Che tu sia un coltello! - continuò, piegando un altro filo d'erba.
- Che tu sia un fucile! - comandò a un terzo filo d'erba.
Immediatamente un bel cavallo scalpitò davanti a lui, un coltello s'infilò nella sua cintura e un bellissimo fucile appeso alla sua spalla. Mavungun, tutto contento, salì sul cavallo e partì. Cavalcò per parecchio tempo, finché a un certo punto, si sentì stanco e affamato.

- Talismano mio, mi farai morire di fame? - disse, toccando la pietra.
Subito, davanti a lui, apparve un sontuoso banchetto. Il giovane scese da cavallo, mangiò e bevve a sazietà, poi tutto allegro riprese il viaggio.
Dovete sapere che, non lontano dal posto dove Mavungun si era fermato a mangiare, c'era una bellissima città. Essa era governata da un re che aveva una figlia, assai capricciosa. La fanciulla era in età da marito, ma, per quando già molti l'avessero chiesta in sposa, ella aveva rifiutato a tutti la sua mano. Mavungun giunse nella città e si fermò sulla riva del fiume. Qui c'era anche la fanciulla, con molte altre compagne; appena vide il giovane straniero, tornò di corsa dal padre e dalla madre e disse loro:
- Ho visto l' uomo che voglio per marito e morirò se non lo sposerò!
Il padre mandò i suoi schiavi incontro al giovane straniero e lo invitò a banchetto nella sua casa. Mavungun fece al re un'ottima impressione, tanto che, quando il giovane gli offrì molto doni preziosi, non esitò a proporgli di sposare la figlia. Così, con grande allegria e gioia per tutti, si celebrarono le nozze. Nella casa degli sposi c'erano tre grandi specchi accuratamente coperti. Mavungun, preso da una grande curiosità, volle sapere perché fossero coperti. La moglie gli rispose che era molto pericoloso guardarvi, ma Mavungun insistette tanto che la fanciulla alzò la stoffa che ricopriva il primo specchio e... subito il giovane vide la sua città natale, con tutte le sue strade e la sue casa.
- Chi guarda in questo specchio, - disse allora la moglie - vede la città nella quale è nato. Nell' altro specchio, ciascuno vede le città che conosce e che ha visitato nei suoi viaggi.
E così dicendo, scoprì il secondo specchio.
- E il terzo specchio?
- Il terzo non lo puoi scoprire perché vedresti l'immagine della città dalla quale non si torna.
- Fammela vedere ! - gridò Mavungun, e strappò la tela.
L'immagine che gli apparve era terribile, ma il giovane la fissò intensamente e si sentì preso da un grande desiderio di andare in quella città.
- Ti scongiuro, non andarci, perché non tornerai mai più! - lo implorò la moglie.
Ma il giovane era deciso; prese il suo cavallo e partì. Cavalcò e cavalcò per tanti mesi, finché un giorno, guardandosi intorno, vide una vecchia, che stava seduta presso un mucchio di sassi bianchi e neri.
- Vecchia, hai un po' di fuoco per la mia pipa? - chiese Mavungun.
- Scendi da cavallo e avvicinati - rispose la donna.


Mavungun si avvicinò, ma appena la vecchia gli ebbe toccato la mano, il giovane fu trasformato in una pietra nera e il suo cavallo in una pietra bianca. Il tempo passava, e Luemba era molto meravigliato che il fratello non avesse mai mandato sue notizie; così un giorno; decise di andare alla sua ricerca. Se ne andò nella foresta, colse un pugno d'erba e, per opera del suo talismano, fece trasformare un filo in un cavallo, un secondo filo in un coltello e un terzo filo in un fucile e poi partì. Dopo parecchi giorni arrivò nella città in cui Mavungun aveva preso moglie.
- E' tornato Mavungun, lo sposo della figlia del re!
Appena sceso da cavallo, vide una bellissima fanciulla, che gli veniva incontro dicendo:
- Finalmente sei tornato.
Luemba cercò di spiegare che non era Mavungun.
- Vuoi scherzare, marito mio - lo interruppe la donna, e si mise a ballare per la gioia.
Luemba tentò invano di spiegare chi fosse, ma né la moglie del fratello, né il re, né gli altri abitanti vollero credergli; alla fine, anzi, nessuno stette più ad ascoltarlo. Perciò il giovane dovette tacere e indagare per conto suo, per scoprire che fine avesse fatto Mavungun. L'occasione si presentò subito, perché, quando Luemba entrò in casa, la moglie del fratello gli disse ridendo:
- Spero che avrai perso la voglia di guardare negli specchi!
- No, invece; - disse subito Luemba, - anzi, ti prego di farmeli rivedere.
Questa volta la giovane non si fece pregare e Luemba poté vedere la città dove era nato, poi i luoghi che aveva attraversati viaggiando, e infine guardò interessato la città dalla quale non si torna. Capì subito che quello era il posto dove il fratello era andato e dal quale non era tornato; perciò, senza perdere tempo, disse:
- Mi ricordo ora di aver lasciato laggiù una cosa molto importante. Vado e ritorno al più presto.
- Va pure, marito mio; sei appena arrivato, ma, se pensi di dover ripartire, io ti aspetterò. Ma fa presto.
Luemba montò a cavallo, prese il coltello e il fucile e corse via al galoppo. Cavalca cavalca, eccolo arrivare in vista del mucchio di pietre sbianche e nere; Accanto al mucchio, stava seduta la solita vecchia.
- Vecchia, hai un po' di fuoco per la mia pipa? - domandò Luemba.
- Scendi da cavallo e avvicinati - rispose la vecchia.
Luemba scese da cavallo, ma invece di stendere la mano verso la donna, le scagliò addosso il suo talismano. Fu un attimo: il terreno si aprì e la vecchia scomparve mandando un grido terribile. Subito Luemba si avvicinò al mucchio di pietre e cominciò a toccarle con il suo talismano: le pietre nere si trasformarono in tanti giovani e le pietre bianche in altrettanti cavalli. Naturalmente in mezzo agli altri, Luemba riconobbe subito Mavungu, e i due fratelli si abbracciarono con molta gioia. Poi rimontarono a cavallo e, senza indugiare, tornarono nella città dove la moglie di Mavungun aspettava pazientemente il marito. Potete immaginare quale fu la meraviglia di tutti, nel vedere i due fratelli così uguali l'uno all'altro. Vi furono grandi feste, che durarono tre giorni e tre notti e fu ordinato un sontuoso banchetto al quale parteciparono tutti gli abitanti della città. Poi Luemba ripartì e torno nel villaggio natale: la madre ansiosa gli corse incontro chiedendogli notizie di Mavungun; egli la rassicurò sulla sua salute e le raccontò quando era accaduto; poi la condusse nella città dove Mavungun era diventato l'erede del re e là ella trascorse felice i suoi ultimi giorni. Nel frattempo Mavungun e la moglie entrati in casa s'accorsero che i tre specchi non c'erano più, infatti la magia aveva voluto che nello stesso momento in cui la vecchia era scomparsa, scomparissero anche le tre lastre lucenti. E così nessuno ha più saputo dove fosse la città dalla quale non si tornava più indietro. 

IL GENIO DEL FIUME

Il giovane Ghiase aveva visto una volta solo la bellissima Emme, ma si era convinto che ella era la più bella fanciulla di tutta la regione. Senza perdere tempo, Ghiase chiese ai genitori di Emme che gli concedessero la figlia in sposa; poi tornò al suo villaggio, a fare i preparativi per le nozze. Il giovane felice, decantava ai parenti e agli amici la bellezza della sposa. Il padre di Emme era un uomo molto ricco e, desiderando che la figlia arrivasse al villaggio dello sposo con un seguito conveniente, comprò per lei la più bella schiava e diede ordine alla figlia minore di seguire la sorella. Così Emme, finalmente pronta per le nozze, lasciò la sua casa accompagnata dalla schiava e dalla sorella più piccola; dovevano camminare tutto il giorno per arrivare al villaggio di Ghiase, ma erano allegre e contente e non sentivano la stanchezza. Poco prima del tramonto le tre ragazze arrivarono in vista del villaggio; si trovavano, in quel momento, sulla riva di un fiume ed ebbero l'idea di fare un bagno per togliersi di dosso la polvere della strada. Il fiume era abitato dal genio dell'acqua, il quale aveva potere lungo tutto il suo corso; ma Emme non lo sapeva e fu la prima a scendere verso la riva e a mettere i piedi nell'acqua fresca, mentre la sorellina era ancora indietro e la schiava la guardava. Ora dovete sapere che la schiava si era accorta che il genio guardava verso di loro, ma non volle trattenere Emme; anzi, le diede una spinta, e la fanciulla cadde proprio vicino al genio, che l'afferrò e se la portò via nel fondo. La sorellina cominciò a piangere, ma la schiava la minacciò:
- Se continui a piangere, ti butto nel fiume, dove farai la fine di tua sorella! Guai a te se racconterai a qualcuno quello che hai visto ! Vieni con me e tieni sempre la bocca chiusa!
Detto questo, diede il suo fagotto alla bambina e si avviò verso il villaggio di Ghiase. Quando Ghiase vide ferma davanti alla sua porta la giovane con la bambina rimase un po' male, perché gli sembro di non riconoscere in lei la sposa bellissima che si era scelto. Ma pensò che forse il viaggio l'aveva stancata e fece entrare la giovane nella sua capanna, perché si riposasse. Poi riunì tutta la comunità per organizzare i giochi e i banchetti; ma quelli che venivano davano uno sguardo alla schiava e poi dicevano tra loro :

- E questa sarebbe la bellezza che Ghiase ha tanto decantato?
Ma badavano bene che Ghiase non udisse, perché tutti gli volevano bene e non volevano dargli un dispiacere. Intanto i giorni passavano e Ghiase, per un motivo o per un altro, rimandava sempre la cerimonia delle nozze. La donna aveva presentato la sorellina di Emme come una piccola schiava al suo servizio; la trattava malissimo, rimproverandola sempre e picchiandola con un bastone. Ogni giorno pretendeva che andasse al fiume con brocche grandissime ad attingere l'acqua fresca. La bambina avrebbe voluto ribellarsi e raccontare a Ghise quando era accaduto al fiume, ma poi il timore della schiava la faceva tacere. Ghiase, che si era accorto di questi maltrattamenti, un giorno domandò alla schiava:
- Perché sei così crudele con questa bambina?
- Perché ha un carattere cattivo e ribelle.
- Prova ad essere più buona con lei - le disse allora Ghiase - e vedrai che ti obbedirà.
La schiava non rispose, ma appena Ghiase se ne fu andato, riprese a trattarla male. Un giorno andò al fiume a prendere l'acqua, ma la brocca era così piena e così pesante che ella non riuscì assolutamente a metterla sul capo: allora sedette sulla riva e si mise a piangere disperatamente. Improvvisamente, dalle acque del fiume uscì una bellissima fanciulla: era Emme, che, udendo il pianto della sorellina, aveva pregato il genio di lasciarla uscire dal fiume un solo momento, per aiutarla. Il genio aveva acconsentito, perché sapeva bene che emme ormai non poteva più sfuggire al suo potere. Quando la bambina vide la sorellina, si mise a piangere più forte:
- Non devi abbandonarmi! - singhiozzava, raccontando le sue sventure - La schiava mi maltratta, mi picchia con un bastone....
- E Ghiase? - domandò Emme.
- Ghiase non l' ha ancora sposata; ogni giorno rimanda le nozze.
- Sta' tranquilla, sorellina; un giorno tutte le nostre sventure avranno fine.

E così dicendo, la bella Emme si rituffò. La sorellina tornò a casa un po' consolata, ma la schiava, vedendola così tranquilla, raddoppiò i maltrattamenti, anche per sfogare su qualcuno la rabbia per quel matrimonio continuamente rimandato. Così passarono alcuni giorni. Una mattina, mentre la bambina sulla riva del fiume chiamava la sorella, passò di li un cacciatore amico di Ghiase. Sentendo i pianti e le grida d'invocazione della piccola, il cacciatore si nascose dietro un gruppo di alberi e rimase a guardare; così poté vedere le acque del fiume aprirsi e una bellissima fanciulla venire sulla riva a consolare la bambina e ad aiutarla ad attingere l' acqua. Quando la fanciulla fu nuovamente scomparsa nel fiume, il cacciatore si mise a correre e, in un batter d'occhio, arrivò al campo dove Ghiase stava lavorando.
- Ghiase, - gli disse tutto affannato - ho lasciato proprio adesso, sulla riva del fiume, quella schiava che è arrivata al villaggio insieme con la tua promessa sposa.
- Ebbene? - domandò Ghiase, che non poteva sentir parlare della sua promessa sposa senza che gli si stringesse il cuore.

- Ebbene, ascolta: ella ha chiamato e pianto, e dal fiume è uscita una bellissima fanciulla che la bambina chiamava Emme...
- Emme? !Ma...
- Lo so; questo è il nome della tua sposa; credo di aver capito tutto, Ghiase. La fanciulla del fiume è la tua vera fidanzata, che il genio dell' acque ha rapita; questa, che sta al villaggio, è una bugiarda...

- Si, si, così deve essere. Domani verrò anche io al fiume.
Infatti, la mattina dopo, mentre la bimba sulla riva chiamava e piangeva, Ghiase e il cacciatore se ne stavano dietro un gruppo di alberi e guardavano attentamente il fiume. Quando emme comparve Ghiase gridò:
- E lei!
I due giovani tornarono al villaggio pensando al modo migliore per sconfiggere il genio dell'acqua.
- Soltanto la vecchia del fiume può aiutarti - disse infine il cacciatore.
- E' vero - esclamò Ghiase.
La vecchia del fiume viveva, da cento e più anni, in una capanna vicinissima all'acqua, la sua capanna resisteva anche alle piene, perché le onde, invece di aumentare, da quella parte si ritiravano lasciandola all'asciutto. Ghiase le raccontò tutta la sua storia. Alla fine, la vecchia disse:
- Si può tentare qualche cosa; portatemi una capra bianca, una gallina bianca, una pezza di stoffa bianca e un cesto di uova; poi lascia fare a me.
Ghiase procurò tutto quello che la vecchia gli aveva chiesto, ma dovettero passare ancora sette giorni, perché arrivasse il tempo propizio. Finalmente la vecchia se ne andò sola sulla riva del fiume, spinse nell'acqua la capra bianca, e la gallina bianca, vi getto a una a una le uova e, per ultimo, stese sull'acqua la pezza di stoffa bianca, che la corrente si portò via. Subito dopo, le acque si aprirono e la bella Emme salì sulla riva.
- Benvenuta, Emme! - le disse la vecchia. - Non aver timore: io ti sono amica e ti aiuterò
Prese per mano la fanciulla, la condusse nella capanna e la nascose nella parte più interna e più buia. Poco dopo, arrivò Ghiase con l'amico cacciatore: potete immaginare quale fu la gioia dei due sposi, quando si trovarono finalmente riuniti. Emme chiese subito della sorellina e Ghiase mandò il suo amico cacciatore sulla riva del fiume; appena la piccola, come ogni giorno, comparve con la sua grande brocca per attingere l'acqua, il cacciatore la prese per mano e la condusse alla capanna della vecchia. Quale fu la gioia delle due sorelle quando poterono riabbracciarsi! Piangevano e ridevano insieme, col cuore pieno di felicità. Infime Emme disse alla sorellina di tornare a casa e le diede istruzioni su quello che doveva fare. La bambina corse via tutta allegra, entro nella capanna, dove la schiava stava seduta, pensando piena di rabbia a come potesse costringere Ghiase a sposarla, e gridò - Tu sei una donna cattiva, hai voluto uccidere Emme e hai ingannato Ghiase e per questo sarai trattata come meriti!
La schiava balzò in piedi:
- Dove hai trovato tanto coraggio, piccola sciagurata? Adesso ti sistemo io!
Prese il bastone e si mise a rincorrere la bambina, che, uscendo dalla casa, cominciò a correre a tutta velocità verso la capanna della vecchia del fiume, dove l'aspettavano Emme e gli altri. Appena


arrivata la piccola infilò la porta e la schiava, dietro; ma sulla soglia comparve Emme in tutta la sua bellezza e la schiava, vedendola, rimase così meravigliata che non seppe più che cosa fare. Ricominciò a correre, ma in senso opposto, cosicché, a un certo punto, si trovò sulla riva del fiume e cadde nell'acqua. Subito il genio la trascinò giù e la tenne prigioniera al posto di Emme. Così Emme e Ghiase poterono finalmente sposarsi e vivere a lungo insieme, senza che nulla ormai turbasse la loro felicità. 

IL BAMBINO D'ORO E IL BAMBINO D'ARGENTO


Niame, il più potente fra i maghi del cielo, viveva in una fattoria posata sopra un bellissimo tappeto di nuvole. Un giorno decise di prendere moglie e invitò a presentarsi le quattro fanciulle più belle della sua tribù. Poi domandò a ciascuna:
- Che cosa faresti, per me, se io ti sposassi?

La prima, che si chiamava Acoco, dichiarò:
- Spazzerei la fattoria e governerei la tua casa.
E la seconda:
- Cucinerei ogni giorno per te le pietanze migliori.
E la terza:
- Filerei montagne di cotone e andrei tutti i giorni ad attingere l'acqua.
E la quarta:
- Io, Niame, ti darei un figlio tutto d'oro.
Naturalmente Niame scelse l'ultima e ordinò di preparare la cerimonia per le nozze. Acoco fu molto contrariata per la scelta fatta da Niame; si rodeva di invidia e di gelosia. Seppe tuttavia nascondere molto bene i propri sentimenti e riuscì a rimanere presso la giovane regina come dama di compagnia.
I due sposi vivevamo felicemente e avevano già preparato la culla in attesa del bambino tutto d'oro, quando Niame dovette partire, per visitare una sua grande fattoria. Proprio durante la sua assenza, alla regina nacquero due gemelli: uno tutto d'oro, l'altro tutto d'argento. La perfida Acoco, non appena li vide, prese i due bambini, li chiuse in un cestello e fuggi con essi in mezzo al bosco; poi nascose il cestello nel tronco vuoto di un albero. Nella culla al posto dei bambini, mise due orribili ranocchi. Quando Niame fu di ritorno, Acoco gli corse incontro:
- Affrettati, Niame! - gridò. - Vieni in casa a vedere i tuoi figli!
Niame si affrettò, ma quando vide nella culla le due brutte bestie, rimase male. Comandò che i ranocchi fossero uccisi e la regina esiliata proprio ai confini del regno, in una capanna solitaria. Intanto il destino volle che un cacciatore passasse vicino all'albero morto dove stava nascosto il cestello con i due bambini dentro. L'uomo scorse un luccichio e si avvicinò.
- Che cosa è questo ?- si chiese.
- Siamo figli di Niame - risposero i bambini.
Il cacciatore raccolse il cesto, lo aprì, e restò ammirato davanti alla bellezza dei due piccoli. Era poverissimo, ma li portò a casa sua e li allevò con amore, senza rivelare a nessuno dove li avesse trovati.
I due bambini crescevano buoni, obbedienti e abili in tutte le cose. Quando il cacciatore aveva bisogno di denaro, raccoglieva la polvere d'oro e d'argento che cadeva di continuo dai loro corpi e andava in città a comperare quando gli era necessario. A poco a poco divenne un uomo molto ricco, e sostituì la misera capanna con un ampia fattoria.
Un giorno il cacciatore venne per caso a sapere che i due bambini erano figli del re e allora, sebbene a malincuore, decise di riportarli al padre. Giunti alla fattoria di Niame, il cacciatore chiamò il re fuori dal recinto e gli disse:
- Vieni a vedere quali esercizi sa fare questo ragazzo d'argento!
Niame uscì e restò ammirato dell'abilità straordinaria del giovane. Intanto il ragazzo d'oro aveva cominciato a cantare in modo meraviglioso e cantando narrava la propria storia: la promessa della mamma, la perfidia di Acoco e la bontà del cacciatore che li aveva allevati e amati come figli. Niame stupito e commosso abbracciò i figli, fece richiamare la regina dall'esilio e ordinò alle schiave di pettinarla e rivestirla di abiti regali. Poi andò da Acoco, la trasformò in una gallina e la scaraventò sulla terra. Infine lodò molto il buon cacciatore e lo rimandò a casa carico di regali. Ancora oggi i due figli di Niame vanno a fare il bagno nel grande fiume che scendeva a cascata sulla terra; allora un po' della loro polvere d'oro e argento arriva fino a noi e quelli che la trovano diventano molto ricchi.